
Già nella ricerca “Cosa bolle in pentola?”, realizzata dal nostro Centro studi nel lontano 2006 per indagare i bisogni dei nostri adolescenti, i giovani denunciavano l’assenza di luoghi specificamente dedicati a loro, o meglio di luoghi veramente rispondenti ai loro bisogni, alle loro specificità di “giovani”. Al tempo stesso la ricerca evidenziava, tra gli altri, alcuni aspetti, particolarmente interessanti:
1.L’elevato numero di quanti trascorrono il tempo sempre a confidarsi con gli amici e la significativa
presenza di un bisogno non marginale di relazionalità, di un bisogno di parlare di sé, molto spesso, però, affidato al PC e non ad un rapporto diretto.
2.L’esigenza di luoghi specificamente dedicati a loro, ovvero la scarsa rispondenza dei luoghi pur frequentati comunemente, ai loro reali bisogni, alle loro specificità di “giovani”.
3.Il fatto che solo “qualche volta” la maggioranza dei ragazzi andassero al cinema e che si spiega presumibilmente con la pratica sempre più diffusa di guardare i film, in DVD, a casa.
A distanza di 15 anni, non si può dire che la situazione sia cambiata e se al Personal Computer viene ancora riconosciuta la caratteristica di strumento privilegiato (se non indispensabile) per mediare il rapporto personale e sensoriale con il prossimo, non si può non ammettere che siamo di fronte ad
un pericolo. Il rischio cioè che la comunicazione virtuale sia fine a se stessa, alimentando un bisogno che vira, sempre più pericolosamente, verso una risposta “virtuale”, al riparo dal “rischio” di un reale rapporto di prossimità/intimità con l’altro.
Di fatto, piaccia o meno, siamo di fronte ad una nuova era della comunicazione da cui non può prescindere chiunque voglia realmente sintonizzarsi con il linguaggio del nostro tempo. Anche per questo, utilizzare il nuovo alfabeto in cui si declina il modo di comunicare è quasi un dovere, una necessità.
Peraltro il PC, così come la rete, è solo uno strumento e tutto dipende dall’uso che se ne fa.
Nel frattempo, la comunità scientifica ha dato anche dei nomi a tali disordini del comportamento e ci si comincia a occupare di questi “dipendenti” compulsivi più o meno come per i giocatori d’azzardo e le altre vittime di vecchie e nuove dipendenze.
Ma senza farci distogliere da situazioni estreme, limitiamoci a qualche considerazione relativamente all’uso eccessivo che si fa di questi strumenti, in via ordinaria e diciamo subito che alla base di una buona educazione ai nuovi media c’è la sobrietà.
Bisogna far capire ai giovani che ci sono possibili alternative per il tempo libero, a cominciare dallo sport, dal frequentare di persona gli amici, dal fare volontariato.
Ma se si abusa della televisione o dello stesso computer, è come con l’alcol e le sigarette: non si è credibili.
Essere vicini ai figli, specie i più piccoli, nell’uso degli strumenti significa poter valutare insieme criticamente ciò che si guarda in tv o s’incontra in rete: smitizzare, toccare spesso il tasto dell’ironia, mostrare la diversità di opinioni come legittimo confronto di idee ma anche come strategia per non credere ciecamente in qualcuno senza porsi domande… insomma la rete che presenta tutto e il contrario di tutto, così come il numero enorme di emittenti televisive, possono essere occasioni per allenare un
apprendimento critico, la presa di distanza, la formazione di proprie convinzioni, la non
passività di fronte a questi strumenti.
Ma molto più utile sarebbe, a nostro avviso, sviluppare anche in tale àmbito programmi di peer education: gli adolescenti ascolteranno molto più volentieri la parola dei coetanei che spiegano loro perché è bello e apprezzato non rincitrullirsi davanti a uno schermo e a una tastiera, compresi quelli formato micro del telefonino.